Sono quasi vent'anni che Marco Paolini, bellunese classe '56, gira teatri e colleziona esperienze artistiche con i gruppi ed i laboratori più disparati (concedendosi anche un paio di puntate nel cinema, in "CARO DIARIO" e "IL TORO" di Mazzacurati).
Comincia infatti con "IL TEATRO DEGLI STRACCI" nel 1978, intraprendendo la strada della clownerie; tre anni più tardi approda alla "INTERNATIONAL SCHOOL OF THEATRE ANTROPOLOGY" a Volterra, dove conosce Gabriele Vacis, che gli sarà accanto per la regia di due degli albums ("ADRIATICO" e "LIBERI TUTTI"), collaborando contemporaneamente con il C.R.T. di Pontedera. Dalla metà degli anni '80 il ritorno nel Veneto con il TAG teatro di Venezia e, di nuovo, nel 1987 la "migrazione" al Teatro Settimo degli spettacoli. Dal 1990, ed è storia di questi giorni, collabora con la cooperativa Moby Dick al progetto Teatri della Riviera (del Brenta), entro il quale si iscrive l'ultimo suo spettacolo: "APPUNTI FORESTI" ("IL MILIONE").
Non ci sono riflessi "esoterici" nel percorso teatrale di Marco Paolini, né compiaciute e sterili montagne ermeneutiche da scalare, quando ci si lascia introdurre da lui nelle pagine dolorose / malinconiche / irrinunciabili / feroci del nostro / suo passato, per uscirne alla fine con gli occhi lucidi di chi si è sentito svelare un segreto struggente intorno alla propria identità storica e politica, e sente l'irrazionale istinto di scavare ancora, e non dimenticare.
Il teatro di parola di Paolini riproduce "antropologicamente" l'eterno istinto dell'uomo a raccontare, trasferendo nella mutevolezza dei registri narrativi (il Tragico, il Comico, l'Epico) non l'istinto autoassolutorio alla mistificazione dei "fatti", ma il desiderio vitale di impossessarsi di essi, di sentire il "travaso" delle vicende narrate come "imprinting" consapevole all'agire "civile".
Ed allora, i "padri" del teatro di Paolini, hanno i volti anonimi e i nomi inventati delle umili comparse delle generazioni passate, che quelle storie di quotidiano amore e sopruso hanno vissuto e a loro volta raccontato, tutto modificando davanti ai propri spettatori perché tutto fosse salvato dall'oblio senza giustizia di chi vuole un paese senza memoria.
Non a caso Paolini nell'intervista che vi offriamo parla meno del teatro (inteso come "macchina scenica" o luogo di travestimento simbolico degli istrionismi di chi lo pratica come attore o regista) e più da chi lo alimenta, standone al di fuori, non a caso arriviamo a scoprire una volta di più come la catena che ci tiene avvinti alle oltre tre ore di uno spettacolo come "Vajont" è la reazione disperata della nostra identità di esseri storici all'imbarbarimento dell'informazione mediatica.
Che insomma, ci si può riappropriare della nostra storia cominciando anche dal teatro, sempre che non abbiamo già fatto delle nostre serate un bel palinsesto...
Abbiamo incontrato Marco Paolini dopo lo spettacolo "ALBUM '73/'74" a pochi giorni di distanza della presentazione del nuovo spettacolo "APPUNTI FORESTI", ancora in forma di work in-progress.
E' evidente il raccordo fra passato e presente di due spettacoli lontani nel tempo, ma ancora più evidenti sono le rotture di continuità con quanto di nuovo hai presentato. Cosa accade in "APPUNTI FORESTI" ?
C'è un tentativo di non usare la "ricetta magica". Di andare a cercare, se c'è, un altro modo di parlare del tempo, che superi il concetto della "memoria", perché la chiave sia della tragedia del "Vajont" sia degli Albums è: "io mi ricordo di certe cose".
La chiave del Milione è: "io imparo certe cose", che non sapevo: Voglio "imparare", e per farlo devo fare domande. Mi chiedevo come andare avanti dopo "Vajont" ed è curioso che se uno si mette a raccontare le storie di questo paese ne trova tante di mai raccontate. Ho la tentazione continua di imbarcarmi in alcune di queste, non solo perché lo penso io, ma perché lo chiedono gli altri, come ci si rivolgeva a deputati, ai sindacati...
Mi sento lusingato, cerco di non dimenticare quanto sia preziosa questa forma di dialogo con le persone, ma al tempo stesso ho la coscienza precisa che non sono in grado di fare un percorso in solitudine verso le punte di questo iceberg sommerso. Questo paese, che ha perso la "memoria", ha bisogno di ricostruire non soltanto singoli frammenti ed episodi ma anche un modo di imparare, non solo di ricordare. Occorre "imparare" ciò che bisognerebbe "ricordare", "reimpararlo".
E come si fa? Questa è la mia domanda con il "Milione"... Avevo Venezia dietro l'angolo, una città che provoca odio e amore, e fastidio, perché come tutte le cose di cui si sente parlare, alla fine ti vien la nausea. Questa è nausea da media, da eccesso di parole. La "memoria" dei titoli è come la memoria fallace, vai in overdose, ti pare di conoscere ma in realtà non sai.
Il nostro è il tempo dell'informazione scheggia, dell'istantaneità, per cui delle cose raggiungiamo solo la superficie e perdiamo la storia. La possibilità del teatro come lo faccio io è la possibilità di raccontare, e raccontare è come costruire un "arco", di mettere insieme i rapporti di causa ed effetto fra le cose, ridando un disegno a quelle cose di cui, prese nella loro istantaneità, non ci chiediamo più il perché: uso quelle maledette schegge di realtà come le pietre dell'arco.
Raccontare diventa allora un lavorare con le pietre, e mi sembrava che le pietre di Venezia, con il loro sovraccarico di romanticismo e di miti fossero usurate dalle parole, e nonostante questo che la città conservasse una "sostanza", quella dei suoi ultimi abitanti, quella di riti non omologabili a quelli di altre città, e per questo a volte fastidiosi chi ci capita fugacemente.
Mi ci sono aggirato in mezzo senza l'idea di essere "veneziano", di "sapere" e ad un certo punto mi sono accorto che raccontando di Venezia pensavo all'Italia, e allora mi è venuto in mente che intorno alle città c'è quel territorio fatto di acque e terre e tutto quel territorio era di demanio pubblico: nessuno poteva dire "qua è mio", la proprietà privata finiva sulla porta di casa.
La nostra attuale idea di demanio è "snaturata", è diventato ciò di cui tutti si possono approfittare perché tanto nessuno controlla. No, il concetto di bene comune è ancora fondamentale, a maggior ragione in un territorio come il Triveneto, dove di "bene" se ne produce moltissimo, ma per sé, e non si produce nemmeno un briciolo di "bene comune" durevole. Parlando di Venezia voglio parlare di questo.
Ascoltando il Milione nella forma di laboratorio non ancora definitivo ho pensato molto al lavoro esperienziale sul "campo" che c'è dietro allo spettacolo. Come hai coniugato la tua nozione dell'"imparare" con la necessità della ricerca storica, qual è insomma la genesi di questo Milione già così compiuto ed ordinato eppure frutto di una navigazione in solitario?
A me sarebbe piaciuto fare il giornalista. Mi piace l' idea di Marquez che ha creato una scuola di giornalismo, mi piacciono i giornalisti che si "documentano", come Bianconi che lavora sul caso Fioravanti, Stajano quando lavora nel "Sovversivo" sulla storia dell'anarchico Serantini, mi piace Bettin, Paolo Veronesi; tutta gente capace di scavare nelle cose...
Ma se abbiamo ancora bisogno di chiamare questo giornalismo, "giornalismo d'inchiesta" è perché la macchina mondiale dell'informazione si alimenta di dispacci d'agenzia, già scelti e preconfezionati da altri. Questo perché c'è sempre meno tempo per fare i giornalisti in senso pieno, e, mancando il "tempo", viene meno l'esperienza. Si arriva ad avere moltissima informazione e pochissima esperienza.
Vale anche per l'attore, è un disastro quando vengono costruiti personaggi senza sapore da attori solamente "informati", senza l'esperienza di come si mangia, si caca, si scopa, ci si picchia, si guarisce... E' una cosa quasi scontata da raccontare qui.
Io sono un borghese: mi piace la mia calma, la mia quiete, non mi sento un militante a tempo pieno. Però poi ho i miei raptus: quando voglio entrare nelle cose, con il mio registratore ed il mio quaderno di appunti passo giorni a fare cose strane, chiedo il permesso di lavorare, salire su, ficcarmi in, oppure senza permesso mi nascondo in...
Avevo già cominciato a farlo con il "Vajont". Conta avere la documentazione sui libri, e non la faccio sempre da solo grazie al cielo! Ma serve anche il tempo, la dispersione, un lusso che il giornalismo d'inchiesta non si può più permettere. E poiché nessuno mi paga, questo lusso con i miei spettacoli me lo posso permettere.
Vorrei tornare brevemente sul concetto di memoria: anche in quest'ultimo spettacolo su Venezia, ogni parola, ogni immagine ogni sguardo mi sembra che porti con sé un destino di "conservazione" e non solo di funzione e consumo nei confronti e da parte del pubblico. Come quando una volta la verità sedimentata nel sangue e nel sudore degli individui veniva trasportata oralmente e con essa veniva trasportato quel valore "civile" che è un elemento magari scomodo ma orgoglioso del tuo teatro...
Mi piace di più il concetto di teatro "civile e degli uomini". Quando parlo di Venezia, delle sue pietre, parlo anche degli uomini che la popolano, dei loro figli. Quando ho cominciato questo lavoro sul "Milione", volevo dedicarlo ad Alexander Langer, perché mi sembrava che Langer e Marco Polo fossero uomini "ponte". Non abbiamo bisogno di intellettuali di punta che ci dicano dove andare, ma persone che si sforzino di mettere in collegamento ciò che già c'è, di rimettere in circolazione le sapienze, di creare una rete, uomini "ponte" appunto.
I "ponti" però sono fragili e non dobbiamo lasciare a pochi questo carico che altrimenti diventa insopportabile, come nel caso di Langer. A chi si espone appena un po', viene sotsto, un tempo di crisi. A chi si espone appena un po', viene sotsto, in tempi di crisi d'identità collettiva, un carico di rottura.
Non mi rivolgo a chi ha vent'anni e l'energia ce l'ha, ma a che sente spegnersi un po' dopo tutto questo, a chi si sente sulla soglia dei trent'anni un "reduce". Non mi rivolgo nemmeno a tutti, non ho alcuna visione idilliaca delle cose, ma forze sane, timide, che hanno bisogno di fiducia, ci sono.
E la fiducia dovrebbero ricavarla dalla politica, dalla scuola, della cultura, ma quando qualcuno non fa il proprio dovere, ci sono buchi enormi, in cui ti trovi a svolgere funzioni improprie che io non ho nessun intenzione di istituzionalizzare. Mi rendo conto sul palco che c'è anche questa funzione, anche se non ho "studiato "da intellettuale e non posso pensare a me stesso così... Se devo pensare ad un intellettuale il riferimento obbligato è Pasolini, dopo il quale non c'è stato nessuno capace di raccontare il nostro tempo.
A volte mi viene da pensare che gli "intellettuali" del nostro tempo sono i conduttori televisivi, i Santoro, i Liguori, i Costanzo; e non è un bel pensare. Gente che sta al di là del vetro e che vive una visione bidimensionale, senza profondità di campo, senza la puzza che promana dal nostro tempo. Per questo è vero che mi preoccupa di raccontare le cose in maniera tale che restino.
Guardando a chi in Italia condivide con te il mestiere di attore, è valida ancora la condizione del teatro anche come memoria storica o il tuo percorso è di "splendido isolamento"...
Vorrei che mi spiegassero cosa fanno molti altri miei colleghi... Dicono di fare teatro, ma secondo me fanno gli "zombie"... L'esempio è sempre lo stesso: i testi sono edifici costruiti senza finestre, come fai a cambiare l'aria? Quando ho cominciato a fare teatro io, gli edifici erano solo una parte di un territorio più ampio, ed io ho scelto di fare teatro "fuori". I miei primi ricordi sono di un teatro che sia anche "fuori".
Chi comincia oggi invece anela ad entrare proprio nell'edificio teatrale, a ricoprire una parte qualsiasi pur di stare all'interno dell'edificio, e questa riduzione del concetto di territorio ad edificio è micidiale. L'aria stantia non è solo quella dell'edificio chiuso, ma anche dei morti sul palcoscenico che ancora non sono stati portati via e continuano a recitare...
Perciò non voglio che il mio teatro sia "civile" per differenziarlo da quest'altro teatro di "morti": io faccio teatro e basta. Siano gli altri a spiegare cosa stanno facendo. Nonostante su questo argomento mi senta un rompicoglioni non me ne faccio cattivo sangue: frequento poco gli ambienti teatrali un po' per snobismo un po' perché faccio circa duecento repliche all'anno e un po' perché al di fuori degli spettacoli preferisco parlare con persone diverse da quelle del mondo del teatro, ingegneri, urbanisti, scultori, musicisti o anche persone che semplicemente al termine dello spettacolo mi raggiungono per parlare di ciò che può riguardare anche me.
E' ciò che sta anche nel concetto di bene comune, e di progetto culturale, che è qualcosa che non vive solo del respiro di una legislazione, ma è a lunga scadenza, come immaginare per esempio cosa ci può essere dopo la televisione. Non solo "contro" la televisione, ma in modo più complesso, come possiamo partire da quello che non piace, ma c'è, e possiamo andare avanti.
Questo è il "Waste Land", ma non ha bisogno soltanto di menestrelli che facciano il ritratto della devastazione, bensì, ed è molto meno facile, di chi indichi qualcosa intorno a chi costruire. E' più seducente anche artisticamente, stare al di fuori della mischia, far finta di stare sempre all'opposizione... Per snobismo, che è cosa diversa dalla sana diffidenza che c'era nella cultura contadina. Da vecchio potrei diventare "reazionario" nel senso che intendeva Pasolini...
Ecco un concetto rivoluzionario: "abbiamo schifo". Attenzione, non: "facciamo schifo". Prendi gli inizi del '900; il concetto aggregatore era: "abbiamo fame!". Su questo si muoveva il socialismo, basi concretissime... Il socialismo è un'ua sul fatto di raggiungere un benessere materiale senza il quale non si vive: e in presenza di tale benessere tutto l'impatto filosofico ed ideologico decade.
Ma allora abbiamo bisogno di altri principi aggregativi, perciò non allora: "abbiamo schifo"? Lo possiamo assumere come paradigma pratico di fronte a ciò che non va bene. Accettiamo pure un livello democratico di conflittualità, perché gli interessi non vanno tutti nella stessa direzione, ma rimane fondamentale darsi comunque un progetto culturale in positivo: per me significa progettare un paese in cui vorrei vivere, magari fra vent'anni.
E' non credo che quello a cui comincerò a lavorare sarà quello in cui andrò a vivere: sarà il risultato di quello che volevo io con quello che volevano gli altri, e cambierà tantissimo. Ma non sarò frustrato per questo, ed è comunque un'idea diversa da quella che semplicemente azzera ogni possibilità di fare, quest'overdose di cinismo il cui fine è semplicemente paralizzare gli avversari ed azzerare qualsiasi mossa... Si riflette come sfiducia negli eletti, negli elettori, nei meccanismi stessi della partecipazione.
Da ultimo: hai mai pensato di allargare questa forma di affabulazione solitaria a laboratorio anche per altri? Se cioè come attore della storia di una regione, di un paese e delle sue ferite storiche ti sia mai venuto il desiderio di insegnare ad altri a raccontare allo stesso modo? Anche questo potrebbe essere un tassello di quel progetto culturale di cui parli....
C'è bisogno di continuità, non puoi impiantare laboratori nel deserto, perché originano semplicemente disastri. La responsabilità di costruire strutture stabili in questa regione è degli operatori teatrali di questa regione: devono essere capaci di creare una scuola autosufficiente ma non velleitaria, collegata alle altre nazionali. Se il teatro ridiventa un territorio, si apre un mondo di storie possibili da raccontare, ma non bisogna vedere nel teatro l'apparato oggi esistente.
Occorre mantenere un'attitudine rivoluzionaria, non in senso politico, ma organizzativo. Per quanto mi riguarda mi vedo come un cattivo insegnante: ogni due o tre anni alla civica scuola di arte drammatica Paolo Grassi a Milano facevo un corso di un paio di mesi, che mi succhiava tutte le energie che avevo, come l'anno scorso. Mi sono posto il problema di creare qualcosa qui nel Veneto, anche se ora mi sento in fase "solitaria", ma comunque non ho intenzione di mettermi alla guida di progetti legati espressamente a me o al mio lavoro.
Semplicemente quello che faccio si sposa bene con i sistemi di formazione tradizionale, purché si lavori davvero: che si parta dal teatro orientale, da Brecht, dalla commedia dell'arte dallo clownerie, tutto può andare bene, ma io non ho elaborato alcuna poetica da contrapporre a queste forme.
Leonardo (12-01-1997)
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