Chi ha avuto la fortuna di vedere i films del circuito Playbill nelle proprie città ricorderà a lungo questo prezioso lungometraggio del regista francese, che è un film teso a rammentare con grazia e levità lo stato del cinema (con un surplus di accettabile sciovinismo verso il cinema americano in puro spirito anti-G.A.T.T.) e il discreto rimpianto per l'incanto della "visione", che sopravvive come entità fantasmatica fra gli interstizi di un "vedere" sempre più logoro e privo d'amore per i propri oggetti (un amore che è abbandono e "suzione" d'immaginario come l'anima di un vampiro, appunto).
Così importa meno il richiamo evidente ad "Effetto Notte" di Truffaut (il film sul film, nella fattispecie il remake di "Les Vampires" di Louis Feuillade), quanto l'allusione ad un immaginario ritenuto (a torto o a ragione) ingenuamente contiguo (oltre le distanze critiche della storia) a quello del cinema muto delle origini: quel cinema asiatico fatto di azione "pura" che appartiene all'attrice Maggie Cheung, e che il regista in odore di decadenza (Jean Pierre Leaud) sceglie per ridare "corpo" ai fantasmi che l'ossessionano.
Leonardo (10-05-97)
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