C'è un ormai evidente denominatore comune fra i film che arrivano sul mercato europeo con la "benedizione" del Sundance Festival americano. Sono films lontani dall'esagerazione stilistica di un Tarantino o di un Lynch (solo per citare due fra i più eivdenti modelli di riferimento del cinema americano di questo decennio), poco spettacolari e a abasso budget, e tutti improntati ad una asciuttezza stilistica molto più vicina a certo cinema europeo "morale" (tipo Bresson, per intenderci).
L'oro di Ulisse (come Dolly's Restaurant, e molti altri) rientra in questa categoria: una storia di realismo suburbano triste e minimale "politicamente corretta" destinata ad un lieto fine rubato ai films di Capra, ed inscritto nella maschera teatrale di Peter Fonda, capace di dare lo spessore rugoso e segnato dagli anni al personaggio dell'apicoltore Ulee, impossibile da non immaginare come l'invecchiato e pentito protagonista di Easy Rider (se fosse sopravvissuto), teso a dispensare rigore morale ad una discendenza disastrata proprio come Nunez sembra volerla distribuire ad una platea ideale (quella americana), affamata di famiglia-lavoro-amore-ecologia, come doveva esserlo quella che si asciugava gli occhi al termine de "La vita è meravigliosa"...
In definitiva un passo indietro di Nunez rispetto all'inquietudine esistenziale di "Ruby in Paradise", e un film segnato da un sottile ma fastidioso richiamo alla concretezza di un nuovo ordine familiare poco appetibile per una platea europea.
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