Avessimo dovuto sintetizzare con uno dei nostri
pesci-icona questo 1996 musicale, probabilmente avremmo
scelto quello dall'espressione più distaccata e moderatamente
soddisfatta, quella che solitamente riserviamo ai dischi da cui
attendevamo
di più, ma che comunque qualche soddisfazione ce l'hanno regalata.
I motivi non sono solamente legati alla qualità delle singole
realizzazioni musicali, né al grado (peraltro decrescente) della
"ricerca" musicale in esse inclusa, ma anche (ed è
la prima volta che introduciamo motivi, per così dire,
"extra-musicali" nel nostro bilancio di fine d'anno) a
fattori legati al mercato dei dischi, alla politica
economica delle majors e alla grande distribuzione
commerciale.
Non è un caso in effetti che il primo salone della
musica che si è tenuto quest'anno a Torino abbia vissuto
uno degli appuntamenti più interessanti (anche se notevolmente
deludente negli esiti) nel dibattito intorno al caro-cd e alle possibili
politiche culturali per la musica nel nostro paese. Tutto come da
italico costume si è trasformato nella solita kermesse del
rimpallo delle responsabilità e delle buone intenzioni, in
attesa del prossimo salone, dove a recitare questo copione sarà
qualcun altro...
E' fatto incontestabile (e invocato dalle case
discografiche per giustificare il continuo stillicidio di aumenti) che il
mercato discografico italiano (quello ufficiale) interessi percentuali
irrisorie alla voce "consumi" rispetto a quello di altri paesi
europei, e che di conseguenza una battaglia in nome del
"consumatore
musicale" avrebbe esiti pratici deludenti; ma l'accettazione che tutto
venga regolato secondo le stesse leggi di mercato che riguardano i beni di
lusso (perché l'i.v.a. applicata ai dischi appartiene a questa
categoria merceologica) comporta una serie di conseguenze sempre
più dolorose.
La prima, banalmente, è che l'acquisto di un disco diventa
un evento sempre più "straordinario", ritagliato con sempre maggior
difficoltà all'interno del budget personale (per chi ne possiede
uno...), e sempre meno un elemento di "normale" crescita culturale (come
accade per i libri, su cui grava un'i.v.a. più bassa, e che
rimangono comunque economicamente più accessibili): se con la
stessa
cifra con cui quattro o cinque anni fa acquistavamo anche sei dischi oggi
possiamo permetterci tre compact, dimezzeremo
letteralmente
la nostra possibilità di "rischiare" e "scoprire" e saremmo
costretti a acquistare solo "a colpo sicuro" (ovvero sceglieremo
quei lavori che hanno a disposizione un più alto budget
promozionale, e dunque in grado di far parlare di sé e di attirare
la scelta di un consumatore medio).
La seconda, che riguarda soprattutto chi come noi attinge la
propria materia musicale dai prodotti d'importazione, è che
l'offerta di musiche "altre" rispetto a quelle di largo consumo
si
è sensibilmente ristretta: l'erosione dei piccoli negozi musicali
capaci di offrire prodotti specializzati ha segnato, specialmente per noi,
una netta diminuzione di ascolti e dunque di "offerta" al nostro pubblico.
La terza, forse la più importante poiché tocca il
"cuore" della musica, riguarda la definitiva "alienazione" del
prodotto-disco dal suo contenuto: le copie vendute sono l'unica
unità di misura possibile nell'universo musicale attuale e di
fronte
ad essa cade (o rimane appannaggio di un circuito sempre più
marginale) ogni reale speculazione sulla "ricerca" musicale, perché
ad essa non è mai data una vera possibilità di diffusione
(non si contano più i gruppi "scaricati" dalle loro etichette al
primo flop "commerciale"; sarebbe curioso fare uno studio statistico sulla
"vita media" della stragrande maggioranza dei progetti musicali di oggi).
Il cortocircuito che lega in rapporto di reciproca causa-effetto questi
tre
elementi ha una, secondo noi, grave ultima conseguenza: che il nostro universo musicale si sta sempre più impoverendo
e con esso la nostra curiosità per i suoni che verranno
(?)...
Ma veniamo al "cuore" di questo bilancio: la musica.
Per noi che da un paio d'anni ormai abbiamo abbandonato (con qualche
sempre
più rara eccezione) le trame del pop inglese per battere strade
musicali meno consuete, è stato oltremodo sorprendente scoprire
come
molta parte dei suoni che ci circondano in contesti extra-musicali
(dai
commercials alle colonne sonore) sia preso di peso dai generi che
ospitiamo
nel nostro programma: sicuramente il trip-hop ed il drum'n'bass
(quest'ultimo figliato dalla jungle cosiddetta "intelligente") sono le
matrici musicali più usate (ed abusate) di questo anno musicale
appena chiuso.
Ma che a tutto questo non debba corrispondere necessariamente un anno di
ascolti musicali strepitosi è dimostrato proprio dal "fortunato"
destino commerciale di brani trip-hop e drum'n'bass celebrati più
come ideali jingle pubblicitari che come espressioni di una ulteriore
evoluzione musicale... L'appropriazione da parte della pubblicità
di queste trame musicali dimostra paradossalmente la loro scarsa
"musicalità" e la loro alta "degradabilità" storica:
è
come se, involontariamente, questa "musica" avesse svelato lo stesso
fragile ordito e la bassa funzionalità-fruibilità delle
melodie di grado zero degli spot.
Un ulteriore elemento in questa direzione lo dà la quantità
inflazionistica di compilation "a genere" apparse lo scorso anno, versus
un
numero percentualmente poco significativo di "album" organici (e quei
pochi
spesso da dimenticare; un paio di esempi per tutti: "music for babies" di
Howie B. e l'album di debutto degli Spaceways, TRAD).
Così non è stato davvero facile cercare di
dissotterrare dalla nostra memoria emozionale-musicale le dieci più
dieci perle musicali del 1996: eccovi un breviario
personale per quanto noi (Loris e Leonardo) abbiamo scelto (mentre un
luogo a parte ha scelto Luca per raccontarci il
suo 1996).
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